A 471 giorni dai terribili eventi accaduti il 7 ottobre 2023, dopo 1.500 vittime tra civili e militari sul fronte israeliano (con circa 12.415 feriti) e oltre 46.000 morti tra i palestinesi a Gaza (i feriti sono più di 100.000) con una significativa percentuale di donne e bambini, Tel Aviv e Hamas hanno siglato un accordo articolato per una tregua umanitaria e per l’avvio, in una seconda fase, delle trattative per imbastire una sorta di cessate il fuoco.
Un’intesa difficile, che appare più l’esito delle imposizioni interne ed esterne che della volontà delle parti in causa. Dal lato israeliano è inequivocabile il ruolo decisivo assunto dall’opinione pubblica e dalle istituzioni politiche e militari nazionali, a cui si è aggiunta – su un governo piuttosto recalcitrante alla firma – anche la forte pressione statunitense, esercitata sia dall’amministrazione uscente di Joe Biden che da quella di Donald Trump oramai prossimo all’insediamento; sul versante palestinese invece, a spingere verso un accordo è stato innanzitutto il diffuso malcontento popolare serpeggiante a Gaza, e in misura minore la necessità per Hamas di riorganizzarsi dopo le perdite subite con la decapitazione dei suoi vertici nel corso del 2024. Al contempo, le posizioni delle parti in conflitto restano nel lungo periodo ampiamente incompatibili anche rispetto alla tregua, con Israele che ha cercato di neutralizzare Hamas ed eradicarla da Gaza senza riuscirci e l’organizzazione palestinese che ha sfruttato tutte le opzioni a sua disposizione per tramutare la guerra in una vittoria propagandistica.
Sebbene l’intesa rappresenti un salto di qualità notevole nell’arco degli oltre quindici mesi di guerra e dopo innumerevoli tentativi diplomatici andati a vuoto, il suo raggiungimento è condizionato in partenza da una fragilità inconfutabile, poiché tanto Israele quanto Hamas hanno messo in chiaro fin da subito la loro volontà di riprendere le ostilità. Da questo punto di vista, non si può negare il calcolo politico di Benjamin Netanyahu, in costante debolezza in questi mesi ma in grado di sfruttare alcune vittorie tattiche (la decapitazione dei vertici di Hamas ed Hezbollah, così come l’occupazione ‘temporanea’ del Sud del Libano e del Golan siriano) per rilanciare le sue ambizioni politiche e puntare a un prossimo mandato elettorale (autunno 2026). Tuttavia, la tregua ha diviso ulteriormente il campo israeliano approfondendo le distanze e le tensioni tra le varie anime dell’esecutivo, con i parlamentari del cartello elettorale ultra-sionista e anti-arabo spaccati sulla posizione da tenere rispetto allo stop ai combattimenti. Non a caso la compagine ministeriale di Potere ebraico (Otzma Yehudit) ha abbandonato il governo in aperta contestazione della tregua e delle ‘bugie’ di Netanyahu, che avrebbe accettato quelli che il leader del partito ed ex ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir ha definito i ‘ricatti’ internazionali per impedire la vittoria finale di Israele. Diversamente Bezalel Smotrich – massimo esponente del Partito nazionale religioso-Sionismo religioso (Miflaga Datit Leumit – HaTzionut HaDatit) – ha optato per la permanenza nell’esecutivo, pur da una prospettiva fortemente critica e rivendicando mano libera per il futuro sul tema centrale della questione palestinese: l’ampliamento delle colonie ebraiche in Cisgiordania e l’annessione di quei territori allo Stato di Israele.
Al di là delle minacce di alcuni settori del governo, Netanyahu non è così debole come in passato poiché lo scorso autunno è riuscito ad ampliare il suo esecutivo inglobando parti delle opposizioni, come le forze di destra ex Likud vicine al neo ministro degli Affari esteri Gideon Sa‘ar. Inoltre, lo stesso primo ministro non può rinnegare o sabotare ogni accordo, ma deve tener conto del suo principale sponsor statunitense, quel Donald Trump che tanto punta su Israele e sul suo ruolo di alfiere degli interessi della Casa Bianca in Medio oriente: senza un pur parziale ammorbidimento di Tel Aviv, risulterebbe infatti compromesso anche il tentativo promosso da Washington di ripulire l’immagine israeliana con la comunità internazionale e il mondo arabo-musulmano.
Viceversa, Hamas ha probabilmente cercato la tregua per alleviare le difficoltà della popolazione civile sotto assedio e per ottenere per sé stessa specifiche concessioni, come la liberazione di prigionieri palestinesi fondamentali per riorganizzare le sue file. Una duplice azione utile a rivendicare la resistenza contro Israele e, soprattutto, la sua vittoria nella guerra, dato che Tel Aviv non ha raggiunto gli obiettivi prefissati in questo conflitto. Proprio questa condotta ha non solo rafforzato l’identità, la credibilità e la legittimità dell’organizzazione islamista agli occhi dei gazawi, nonostante tutte le perdite umane in quasi sedici mesi di guerra, ma anche contribuito a consolidare lo status del gruppo nel caotico contesto delle lotte interne al frammentato panorama politico locale, azzoppando ulteriormente le ambizioni dell’Autorità nazionale palestinese (ANP) – sostanzialmente priva di autorevolezza e senza una vera classe dirigente – di esercitare un ruolo preminente nella Striscia a conflitto ultimato. Sebbene sia stata ampiamente disarticolata fin dalle sue fondamenta dalle operazioni militari israeliane, Hamas è infatti ancora nelle condizioni di combattere e offendere, ed è stata per questo in grado di influenzare i tavoli negoziali come avvenuto a Doha.
In uno scenario regionale che tende alla ricomposizione e che va delineandosi conformemente alle strategie di sicurezza nazionale di Tel Aviv, soprattutto per quanto riguardo i territori di confine israelo-siriani e israelo-libanesi, la tregua giunge dunque in un momento particolarmente propizio per le forze belligeranti, che pure non l’hanno apertamente voluta e promossa.
Così dopo vari tentennamenti, il 16 gennaio a Doha, le parti hanno firmato un’intesa che è entrata ufficialmente in vigore alle 10:15 del giorno 19. L’accordo si articola in tre fasi: per la prima, è concordato il rilascio di 33 ostaggi israeliani in cambio di 1.700 detenuti palestinesi, oltre a un parziale ritiro dalla Striscia delle truppe di Tel Aviv che dovrebbe essere completato nella seconda fase, insieme alla liberazione dei restanti ostaggi dai corridoi di Netzarim e, in minima parte, di Philadelphi. La terza fase prevede quindi l’attuazione di un piano di ricostruzione a Gaza e la riapertura dei varchi di frontiera. Tale sviluppo dovrebbe essere inquadrato come un passo fondamentale per creare fiducia e indirizzare le parti verso un successivo momento di più ampie trattative per un cessate il fuoco.
Al di là della propaganda incrociata e delle accuse reciproche di infrazioni varie, non è chiaro se la tregua preveda una sorta di meccanismo di garanzia, né tantomeno è stato specificato che ruolo assumeranno i mediatori internazionali (Stati Uniti, Egitto, Qatar e, indirettamente, anche la Turchia) nel monitoraggio del ritiro dell’Israel defense forces (IDF) dall’enclave palestinese di Gaza. In questa prospettiva, si evince come i singoli calcoli di parte e le opportunità politiche legate a esigenze domestiche potrebbero far deragliare il compromesso e riportare molto presto le parti a una ripresa delle violenze, anche ben prima delle sei settimane preventivate per l’attuazione delle misure della fase 1 dell’accordo. Il timore profondo sul versante palestinese (e arabo) è che nonostante i vincoli negoziati a Doha, Israele possa mutare le clausole concordate e procedere unilateralmente con una dichiarazione effettiva di occupazione della Striscia di Gaza, trovando una sorta di tacito assenso da parte dell’amministrazione Trump anche nel mantenere un controllo a tempo indefinito dei corridoi Netzarim e Philadelphi, nonché dei checkpoint di Rafah e Kerem Shalom.
A spingere verso questa direzione subentrano almeno tre elementi non affrontati dall’intesa, a cominciare da una chiara e inequivocabile visione post-conflitto che coinvolga anche il tema della governance locale. L’assenza di una leadership palestinese forte e autorevole rischia di creare un pericoloso vuoto di potere. L’idea di un’amministrazione condivisa tra ANP e Nazioni unite incontra diversi ostacoli, soprattutto per la crisi di legittimità della prima. Abu Mazen è accusato internamente di corruzione e la repressione lanciata in Cisgiordania contro ogni forma di contestazione del suo operato non ha solo provocato un repentino calo del consenso, ma altresì favorito la crescita di Hamas. Inoltre, in assenza di un credibile attore palestinese in grado di gestire la sicurezza, non è ipotizzabile che le IDF abbandonino il perimetro di Gaza senza essersi preventivamente garantite una certa libertà di azione nell’area, come in parte avvenuto nel Sud del Libano: tutto ciò rischia dunque di riaccendere il conflitto, soprattutto se Israele – interpretando in modo ampio le proprie esigenze securitarie – dovesse effettuare discrezionalmente interventi sui campi profughi interni alla Striscia.
Non meno preoccupante è la questione del corridoio di Philadelphi, che rimane un nodo strategico con impatti diretti sui rapporti con l’Egitto e sull’eredità (di quel che rimane) degli accordi di Camp David del 1978. Non a caso, direttamente connessa a questo punto è la condizione di fragilità vissuta dai Paesi arabi cosiddetti moderati, ciascuno interessato alla definizione di una tregua duratura per motivazioni di sicurezza nazionali e regionali differenti. Egitto, Giordania e monarchie arabe del Golfo si trovano a dover mitigare un doppio fronte di tensioni: da un lato, avvertono la necessità di non rompere l’asse strategico costruito nel tempo con Israele (anche in funzione anti-iraniana); dall’altro sono pienamente consapevoli di dover tenere sotto controllo opinioni pubbliche interne sempre più indignate verso i loro leader, accusati di connivenza rispetto ai massacri israeliani a Gaza e in Cisgiordania.
Infine, merita un approfondimento il possibile ruolo degli Stati Uniti. Con il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, il rischio di un drastico cambio di approccio è concreto: la politica trumpiana potrebbe infatti mettere in discussione l’equilibrio attuale, rilanciando piani controversi come l’Accordo del Secolo e alimentando l’instabilità regionale, soprattutto nei rapporti tra Israele e Iran. Una prospettiva questa tanto preoccupante quanto plausibile, alla luce dell’insediamento a Washington di una nuova amministrazione più vicina alle istanze di Tel Aviv e in grado di contribuire al disegno di Netanyahu di porre Israele al centro di una nuova architettura politica e di sicurezza mediorientale. Perché questo possa accadere sarebbe tuttavia necessario – per lo meno nell’ottica israeliana – eliminare sia Hamas, che invece è sopravvissuta alla guerra e sotto determinati profili è uscita persino rafforzata dal conflitto, sia il cosiddetto Asse della Resistenza filo-iraniano.
Pertanto, la tregua tra Israele e Hamas rappresenta un’evoluzione importante che sconta tuttavia una sostanziale fragilità, mancando di una visione d’insieme che guardi al futuro e a una pace condivisa e sostenibile. Sarà necessario un impegno significativo da parte della comunità internazionale per facilitare il dialogo e garantire che le cause profonde del conflitto – incluse la costituzione di un futuro Stato palestinese (ovviamente su formule e iniziative diverse dalla canonica ‘Two-State Solution’) e la sicurezza di Israele – siano affrontate in modo comprensivo e giusto. Solo attraverso un approccio equilibrato e inclusivo si potrà sperare di interrompere il ciclo di violenza e di costruire una base per una coesistenza pacifica.
Giuseppe Dentice